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    Sraffa il Comunista atipico

    Cesco
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    Post  Cesco Fri Jun 06, 2008 6:10 am

    Lo studio del sistema economico è necessario sia per chi ha l’intenzione di razionalizzare il proprio ruolo nella società ed eventualmente instaurare un rapporto positivo sia per chi ha lo scopo di sfruttare tale sistema a suo favore senza porsi alcun problema di ordine sociale.
    Da quando il capitalismo ha preso forma la classe borghese ha prodotto diversi illustri pensatori che hanno contribuito a far nascere e accrescere la coscienza di classe e la comprensione del funzionamento del nuovo sistema economico. La forma mentis borghese origina da così tanti pesatori che nominarli tutti sarebbe arduo e poco utile, ma dal punto di vista del mero studio del sistema economico è più semplice illustrare in ordine cronologico i vari pensatori e il loro contributo. Nella prima metà del settecento presso la corte dei reali di Francia emerge la figura di François Quesnay, fondatore della scuola dei fisiocrati, che già prevede una divisione della società in classi, un intervento dello Stato negli affari economici e una concezione circolare del processo produttivo e di scambio. Altra figura di rilievo è quella di Anne-Robert-Jacques Turgot che riconosce il ruolo centrale degli imprenditori. L’economia politica classica però è rappresentata principalmente da due pensatori della seconda metà del settecento, ovvero Adam Smith e David Ricardo. Vengono alla luce questioni come la divisione del lavoro; la divisione in classi secondo tre tipi di reddito: salari (teoria dei salari), profitti e rendite; il sovrappiù; ecc. Karl Marx, filosofo-economista della prima metà dell’ottocento, critica duramente i classici anche se ne riprende la struttura. Il punto focale del pensiero di Marx, nonostante sia complesso nella sua originalità, è la demistificazione del sistema del lavoro salariato e degli squilibri a cui esso conduce. Marx in più, non si limita ad analizzare organicamente il sistema economico, ma presenta delle idee per il suo superamento. Gli viene contestato giustamente di aver sottovalutato lo sviluppo e la funzione reazionaria della classe media e di aver ipotizzato il collasso del capitalismo anche (ma non soltanto) per la tendenziale caduta del saggio di profitto che è contrastato attivamente dal avanzamento tecnologico. Insoluta rimane la questione della trasformazione dei valori delle merci in prezzi di produzione delle stesse, sia per i suoi sostenitori che per i suoi avversari. Però in merito alla tendenza ciclica delle crisi del sistema capitalistico e all’assoggettamento al profitto che implica anarchia di mercato e disoccupazione persistente le critiche sollevate non trovano un grande riscontro pratico. Ciecamente i marginalisti, scuola di pensiero, in netta opposizione all’analisi marxista hanno cercato di scongiurare la prevaricazione sociale della classe dominata analizzando il sistema economico dal punto di vista meramente matematico, dimenticandosi volutamente dell’approccio classico circolare. Questo li ha portati a creare un modello fittizio irreale statico basato sulla scarsità delle risorse, sulle curve della domanda e dell’offerta e l’individuo astrattamente considerato. Keynes nella prima metà del XX secolo finalmente ammette che il capitalismo non tende automaticamente alla piena occupazione e che la disoccupazione persistente (quando troppo grande) può destabilizzare il sistema. Illustra una politica per l’occupazione basata su tre concetti. 1. la domanda effettiva che dipende dal livello di occupazione e che influisce sull’ammontare del prodotto, quindi sulle aspettative dell’imprenditore. 2. la teoria dell’investimento, cioè l’imprenditore ha aspettative di profitto che si basano sul tasso di interesse che può dare l’idea dell’eventuale profitto, dato che tale tasso è influenzato dalle vicende monetarie, queste influenzano gli investimenti. 3. la preferenza per la liquidità, ovvero, i risparmi e gli investimenti dipendono i primi dal livello di reddito e i secondi dalle aspettative degli imprenditori. Il tasso di interesse è determinato dalla preferenza di avere la ricchezza accumulata sotto forma di attività più “liquide”, cioè più facili da trasformare in moneta. Tale tasso influenza gli investimenti quindi i risparmi e occupazione più che il viceversa. Attualmente esistono diverse scuole di pensiero come i neoclassici, monetaristi e post-keynesani. Finalmente con Sraffa si torna agli economisti classici. Non accetta l’idea neoclassica secondo la quale l’attività economica sia un corso a senso unico, composto dai fattori di produzione e dai beni di consumo. Ritorna a considerare come punto centrale della riproduzione su larga scala, o accumulazione la divisione del sovrappiù. Secondo Sraffa nel primo ciclo produttivo si assume un certo saggio di profitto; nel secondo si aumentano i salari, riducendo il profitto; nel terzo vengono prodotte le nuove macchine con la conseguente crescita della produttività del lavoro e la risalita del profitto. Nonostante quanto appena visto sull’origine del prezzo, l’idea economica attuale “neoclassica” è che il comportamento che tende a massimizzare l’utilità (cioè il comportamento umano che consiste esclusivamente nel calcolo razionale) conduca all’eguaglianza tra il valore del prodotto marginale del capitale e il suo prezzo, ma questo è teoricamente impossibile. È impossibile determinare il capitale indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci. Il capitale è l’insieme di mezzi di produzione eterogenei quindi variato secondo i prezzi delle merci dei mezzi di produzione.
    Ora, si può inventare quel che si vuole, ma sta di fatto che il capitalismo crea, mediante la quota di lavoro subordinato non pagato, disparità e ha profondamente bisogno di questa per potersi reiterare.
    La domanda a questo punto è: ma se il sistema migliora la qualità della vita della massa, anche creando disparità, che problema c’è?
    Completamente d’accordo, ma se qualche volta ci ricordassimo di non giudicare l’acqua sempre tiepida solo perché quando l’abbiamo assaggiata non aveva ancora raggiunto l’ebollizione, allora potremmo avere una visione più lungimirante dei fatti. Che il sistema economico non sia statico, ma dinamico non ce lo insegnano i docenti di economia, ma la storia dell’adattamento umano e allo stesso modo che il capitalismo non sia eterno è una conseguenza da prendere seriamente in considerazione.
    Ma quali sono le contraddizioni che modificheranno l’attuale sistema economico? Osservando le modificazione avvenute dal XVI al XX si nota che il capitalismo ha via via elevato la grandezza di valore all’ennesima potenza. Oltre a basarsi sul lavoro altrui non pagato, infatti, si concretizza attraverso la vendita delle merci prodotte, quindi ha bisogno anche di un mondo di consumatori che abbiano più bisogni possibili… tutto diventa merce, tutto diventa profitto e tutto diventa consumo. Si ha una subordinazione oltre che al lavoro salariato anche alle merci.
    Il capitalismo crea sempre più bisogni, dà un salario per soddisfarli, accresce le condizioni di vita quindi l’adattamento all’ambiente, sembrerebbe davvero il paradiso terrestre, ma è così per tutti e questo durerà all’infinito?
    Il ogni processo produttivo a cui tutto si riduce è giustificato solo se dal denaro si ricava più denaro. Per mantenere alto il plusvalore occorre contrastare l’aumento dei salari, con la crescente automatizzazione che innalza il rendimento della produttività c (++) [capitale fisso] e la disoccupazione che determina l’abbassamento di salari v (-) [capitale variabile] . La concorrenza intanto tende a far concentrare la ricchezza in un numero sempre minore di persone (multinazionali). Questo è alla base del processo noto come caduta tendenziale del saggio di profitto che teoricamente produrrebbe il collasso del sistema:

    r = pv / v (-) + c (++)

    è noto che questa tendenza viene contrastata dalle innovazioni tecnologiche, che aumentano il grado di sfruttamento del lavoro umano conseguente alla diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, e dal commercio mondiale. Ma se è vero che la tecnologia sta facendo passi da gigante è anche vero che il mercato mondiale non sembra oggi così grande da poter ammettere un’armoniosa convivenza tra multinazionali. Anche se il saggio di profitto riesce a reggere senza determinare l’implosione algebrica del capitalismo, una cosa che non può che aumentare è la disparità tra capitalisti e massa salariata e questo è un fattore di profonda instabilità. In più il capitalismo è intrinsecamente oscillatorio e le sue oscillazioni tendono ad aumentare via via d’intensità fino a provocare, alla fine, una crisi da cui il capitalismo si può salvare solo attraverso un conflitto. Come se non bastasse l’asservimento al profitto fa passare in secondo piano la distruzione dell’ambiente esterno da cui tutti dipendiamo. L’attuale capitalismo tecnico-scientifico del XXI secolo non può che condurre i vari poli produttivi mondiali a saturare il mercato e di fronte all’anarchia di quest’ultimo gli accordi e le regole non potranno fare molto. Chi si illude che l’attuale mondializzazione porti all’era felice del regno dell’economia di mercato, si accorgerà presto che il dispotismo Statunitense e l’arrivismo Cinese sono solo la punta dell’Iceberg e che presto gli uni si scontreranno contro gli altri, ovviante coinvolgendo la medesima massa di salariati che vorranno preservare l’acquisito benessere. La mondializzazione, termine meno popolare di globalizzazione e più appropriato, è quindi un processo asimmetrico e irrispettoso dell’eguaglianza.
    Gian_Maria
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    Post  Gian_Maria Fri Jun 06, 2008 10:11 am

    Cesco wrote:Insoluta rimane la questione della trasformazione dei valori delle merci in prezzi di produzione delle stesse, sia per i suoi sostenitori che per i suoi avversari.
    Scusami, ma questo a me non risulta. Vedi il mio post Un’introduzione all’economia marxiana 1: la teoria del valore-lavoro (Perché il prezzo non è sempre uguale al valore).
    Cesco
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    Post  Cesco Sat Jun 07, 2008 2:48 am

    A molti altri risulta che ci sia stata e c'è tutt'ora una controversia sul problema della trasformazione dei valori in prezzi.

    Quello riportato nella tua traduzione è che il valore della produzione W = C (capitale fisso) + V (capitale variabile) + pv (plusvalore), non va confuso con il prezzo di produzione PP = K (capitale) + II (profitti complessivi, II = K * r/ 100).

    La controversia sta nel fatto che vi sono tre condizioni che devono essere soddisfatte per fare in modo che la teoria della trasformazione di Marx sia soddisfatta

    1 pv tot = profitto tot
    2 K tot uguale prima e dopo la trasformazione
    3 W tot = PP tot

    La controversia nasce quando si abbandona l'ipotesi di costanza della composizione organica del capitale tra settori (come Marx fa nel II e III Libro del Capitale).




    http://it.wikipedia.org/wiki/Controversia_sul_problema_della_trasformazione_dei_valori_in_prezzi_di_produzione

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